The Last Guardian: quando la relazione digitale si evolve in amicizia reale

The Last Guardian
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Ci sono titoli che quando li giochi spengono il mondo. Ci passi attraverso e non ti accorgi minimamente più di avere ancora una dimensione personale di spazio e tempo. Sono quegli stessi titoli che, una volta terminati, ti lasciano una sorta di lutto. Una sensazione di smarrimento indefinibile, come se qualcosa, anche in te, si fosse spento con lo spegnimento della console. È comprensibile. Quando vieni assorbito per intero da qualcosa il termine del viaggio è una fase catartica che lascia il suo segno. Ed è proprio questo quello che succede con The Last Guardian, quando ti accorgi che è arrivato il triste momento di estrarre il disco dalla console, riporlo nella sua piccola teca, posto da dove ti guarderà passargli accanto, avanti e indietro di continuo, distratto da tutto il resto del mondo che ha deciso di ricomparire come di rimpianto: i suoi occhi ti seguiranno come quelli di un compagno di giochi che non si spiega perché lo hai messo da parte, ti attendono, senza rimorso o cattiveria, lo sguardo è lì, ti segue timido e silente, non osa parlare. Occhi incastrati in un Blu-ray che sbattono di continuo sulla plastica. Ne senti quasi il rumore.

Ti accorgi di loro. Perché quando proverai a sederti nuovamente davanti alla console per inserire il disco successivo, qualcosa farà tremare la tua mano. Un’impercettibile insicurezza, sfumata come tempera sopra un foglio: quel tremolio non è altro che la realizzazione che, inserendo quel nuovo disco, di un nuovo gioco, tutto sarà finito per davvero. E quegli occhi che ti pesano sulle spalle, che ti seguono avanti ed indietro, ti chiedono di non farlo, o no, meglio, loro stanno lì, ti guardano e basta, giganti, sei tu che ti chiedi di non farlo; sei tu che non vuoi che quella fine diventi improvvisamente così concreta, tangibile, come mai lo è se non in nuovo inizio. Vuoi convincerti: tu sei ancora quel bambino. Quello che ha scalato il monte di un sogno, che è stato la breccia in un castello di silenzio. Tu sei ancora quel bambino, amico di un mostro mangiatore di uomini.
Tu sei ancora l’ultimo guardiano.

The Last Guardian
L’espressività di Trico è affascinante!

Una vera relazione

L’ultima perla di Fumito Ueda ti lascia in questa condizione, una volta portata a compimento. Ma come ti porta a tutto questo? Difficile da dire, ma semplice per alcuni tratti. Il principale è subito svelato: lo fa attraverso il processo di costruzione di una vera e propria relazione.

The Last Guardian permette infatti di impersonare un bambino dall’aspetto fragile, che improvvisamente si risveglia in una caverna di fianco ad una creatura mostruosa, dalle forme di simili a quelle di un grifone. Il ragazzo non ricorda come è capitato in quel luogo e la bestia è incatenata; una volta liberata, deciderà dunque di seguire il suo liberatore. I silenzi fra i due sono costanti di dialogo, i gesti per tentare di aiutarsi reciprocamente fanno intuire tutta la difficoltà della creazione di un rapporto interspecie che proprio grazie a questi scogli diventa chiaro e lampante sin dall’inizio. Il misterioso complesso templare è lo sfondo perfetto di un’amicizia creatasi al limite del mondo, ai limiti delle storie, e che tenta di crescere e sopravvivere salto dopo salto, scontro dopo scontro. Ciò che permette al gioco di incarnarsi così tanto nelle viscere del giocatore è proprio il capire lentamente che la relazione che si crea tra i due personaggi è quanto di mai visto prima in un videogioco, un rapporto incredibilmente autentico per la sua fattura digitale.

Trico è vivo

Non segue percorsi scriptati (la maggior parte delle volte), non ubbidisce in maniera immediata a tutto quello che gli chiederete. La comunicazione crescerà con il vostro imparare a capire l’animale. Un meccanismo di ubbidienza credibile, veritiero. In nessun rapporto qualunque cosa dici viene eseguita immediatamente. E qui si recupera questo stilema. Trico sceglie. Trico comunica stati d’animo con i suoi movimenti, con i suoi sguardi, con le sue reazioni improvvise, a volte maldestre. Trico è vivo, e la relazione lo diventa con lui.

E forse per la prima volta in un gioco il giocatore avverte tutto questo, ne entra a far parte piano piano, acquisendo confidenza, imparando a credergli, e di conseguenza il rapporto che si crea tra i tre elementi in gioco (i due protagonisti e il giocatore) è sincero;  fatto di parole ingenue allo schermo che nasceranno incontrollabili, per lo stesso meccanismo che ci portava, in tempi antichi,  a tentare di parlare con i nostri giocattoli, quando la fantasia prendeva ancora il possesso della realtà, facendola passare in secondo piano. Sentirvi ripetere “no Trico non di là!”, è un attestazione di autenticità; il tentativo naturale di comunicare con qualcosa che sembra così dannatamente vicino alla vita, e che attesta il compimento di un trittico relazionale ai limiti dell’incredibile.

All’inizio la relazione tra i due sembra incrinarsi, ma poi tutto diventa più armonioso e generatrice di emozioni.

Narrare senza le parole

La narrativa che si sviluppa (o antinarrativa) punta tutto questi processi indiretti per sottolineare se stessa. Se non tramite qualche filmato di intermezzo, e qualche line di dialogo in over voice del bambino adulto che ricorda mentre ci sta raccontando la sua storia,  tutto quello con cui avremo a che fare sarà il silenzio del percorso, i rumori ambientali, e una colonna sonora che si inserisce in via minima; non ci tiene a creare fratture di mondi, ad interrompere le fasi del racconto se non quelle più concitate. Perché tu sei lì, nella desolazione, e con quella devi interagire.

La solitudine è una parte inscindibile del gameplay, perché si permea con gli sfondi mastodontici di rovine di culture criptiche e affascinanti in ogni loro angolo, e ne restituisce un tessuto perfetto in cui, ogni verso, ogni parola, ogni suono prodotto dal movimento dei loro corpi, sarà la base di crescita di un rapporto ai limiti delle leggende, a cui il giocatore sognava di assistere da quando era lui un bambino, quello che ascoltava storie di creature leggendarie protetto dalle sue coperte.

Non solo di questo è fatto però The Last Guardian. La vera fonte del gameplay è proprio la lenta scalata di questo complesso templare, una divagazione costante e quasi metafisica. Le arrampicate del bambino sono lontane parenti di quelle di Uncharted: sono lente, stentate, complesse, ne avvertirete il rischio, e vi sentire piccoli, sempre più piccoli, ogni volta che gli spazi si allargheranno, ogni volta che la bestia vi passerà di fianco facendo tremare l’intero scenario. I percorsi su cui vi troverete a viaggiare sono articolati e passano da interni usurati e misteriosi a colpi d’occhio esterni da far perdere la testa, camminando al limite della vertigine, al limite della magnificenza. Le prime volte in cui vedrete la profondità delle strutture che si ergono fra la nebbia in lontananza mentre la luce illuminerà il perfetto piumaggio di Trico, saranno gli stessi momenti in cui capirete finalmente con cosa avete a che fare. Momenti in cui la poesia ingarbugliata del titolo verrà a galla e si spiegherà con la stessa semplicità con cui si avverte la bellezza , per poi però tornare a nascondersi sottotraccia, pochi secondi dopo.

The Last Guardian
A volte basta una carezza per lenire certi dolori.

Spegnere il mondo con una carezza

L’effetto sul giocatore di un titolo di questo calibro, invalutabile con alcun tipo di graduatoria, è difficile da definire se non provato sulla propria pelle. Se si potesse definire The Last Guardian con un’unica parola, più che “divertente” si potrebbe definire come “rilassante”.

E’ un titolo che non chiede molto al giocatore, lo impegna in enigmi “simpatici”, senza grandi complicanze (a parte alcuni) se non quelle di capire come raggiungere una determinata sezione di gioco. Lo impegna in piccole fughe da armature che tenteranno di rapirlo e portarlo attraverso porte di luce, inquietudine recondita e lontana dalle origini fiabesche. Ci saranno incontri con altri mostri, da cui scappare o da cui farci difendere. Ma il giocatore non viene sfidato in maniera vera e propria. Viene punzecchiato. The Last Guardian crea un sistema che permette di metterti lì, davanti allo schermo, per goderti semplicemente la tua avventura. Sembra banale come descrizione, e lo è, ma diventa un filo più profonda se ti immagini tornare da una giornata di lavoro faticosa, e il pensiero di metterti a giocare con un qualunque titolo ti comporta quel minimo di fatica che poi, una volta acceso il gioco e divorato dall’agonismo non avvertirai magari più; ecco con The Last Guardian non si avverte nemmeno questo passaggio. The Last Guardian ti permette di scioglierti. E’ uno stretching mentale, un enzima rilassante che non vuole creare il minimo attrito; ci tiene solo a farti sedere per farti camminare con lui in lungo un sogno, sfidato quanto basta per lasciarti prendere e portare dove la tua voglia di fantastico possa farti dimenticare di tutto il resto. Spegnendo il tuo mondo con la delicatezza di una carezza.

Ed è per questo che è così tanto difficile abbandonare quel Blu-ray, e quegli occhi incastrati al suo interno. Nonostante The Last Guardian non sia esente da difetti (vedrete una serie decisamente alta di piccoli bug, una telecamera tutt’altro che perfetta, rallentamenti evidenti, e dovrete avere a che fare con un sistema di controllo poco reattivo), per la prima volta avrete trovato qualcosa che, tornando a casa, vi permetterà di ritornare bambini sperduti immersi in una storia misteriosa e magica. E sarà anche la prima volta che giocando avrete la sensazione di avere a che fare con un organo pulsante del gioco: con il suo vero cuore. Finalmente visibile.

E quel cuore vi passerà a fianco, vi verrà vicino col muso, si estenderà per permettervi di arrampicarvi su di lui e raggiungere una vetta altrimenti impossibile. Potrete accarezzarlo, potrete stendervi col viso sul suo piumaggio e guardarlo nel profondo dei suoi occhi. Occhi vivi. Come quelli che vi seguiranno per la stanza, da quella teca, ricordandovi, ogni volta che li incrocerete per sbaglio guardandone la copertina, che avete vissuto insieme un sogno stupendo, che quella avventura è ancora lì, dentro di voi, e potrete tornare ad essere il bambino amico di quel mostro mangiatore di uomini ogni volta che il vostro, di cuore, ne sentirà la mancanza, e ve lo richiederà chiamando forte, ancora, “Trico!”. Per quell’amicizia mai esistita eppure così intensa, così vera, così ridondante nel suo eco che rimbalza fra le pareti di quel che inutilmente viene inteso come vero, e quel che invece noi viviamo come tale.

Sull'autore

Alessandro Tonoli

Grande appassionato di Videogiochi fin dalla più tenera età (si narra sia stato partorito in ritardo in quanto non avendo salvato, non poteva uscire) si diverte a scrivere per questo o quell'altro sito pur di dare un suo piccolo contributo alla diffusione del Videogioco come mezzo, non solo ludico, ma anche artistico ed emotivo.
Da buon Boxaro preferisce i boxer agli slip.