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Sono passati nove anni da quando Hidetaka Miyazaki, sotto il marchio FromSoftware, ha presentato al pubblico mondiale uno dei giochi più controversi e importanti dell’ultimo decennio, “padre” di Dark Souls.
Demon’s Souls.
Tutti conosceranno la dicitura “souls-like”, visto che redattori e testate varie si sono impegnate negli anni ad accumunare la parola “Souls” a qualsiasi cosa capitasse nelle loro mani, sia esso un gioco di Crash che un gelato al pistacchio e nocciole.
Ma che significato ha Dark Souls?
E perché è così importante?
Partiamo dal titolo che ho citato in precedenza. Demon’s Souls è un gioco del 2009 che ha dato inizio a una rivoluzione in un mercato videoludico sempre più cinematico e family friendly. Dalla morte della sesta generazione con la fine del ciclo vitale della PlayStation 2, sempre più pubblico ha iniziato a interessarsi al mondo dei videogiochi.
Un ambito che, per molto tempo, era stato visto come astruso, alieno e per certe comunità anche satanico.
La console Wii, portatrice di morte e distruzione, aveva cambiato la percezione dei videogiochi agli occhi delle famiglie. Non erano più oggetto di sfida e divertimento masochista nel vedere il nostro avatar crepare nei modi più atroci, ma un semplice passatempo fra una pesante giornata lavorativa e il relativo sonnellino prima di ripartire con la routine. Il coinvolgere gli adulti estranei al mondo dei videogiochi con marchingegni dalla forma ambigua e giochi senza nemmeno l’ombra di una sfida aveva completamente stravolto il mercato, così come l’impatto grafico della PS3 e Xbox 360 aveva favorito il proliferare di elementi narrativi sempre più complessi e imponenti sull’economia del gioco.
Tutto ciò, ovviamente, creato da un semplice bisogno di vendere i propri prodotti in un mercato sempre più grande e in continuo cambiamento. Demon’s Souls nacque in quell’era, dove ormai i giocatori si sono abituati agli standard dei Call of Duty, di New Super Mario e di League of Legends. E’ palese che data la situazione il gioco non smosse particolarmente le acque, anche a causa delle dimensioni piuttosto ristrette di From Software. Tuttavia, la riproposta di un sistema piuttosto grezzo di trial and error aveva riacceso qualcosa nei pochi eletti scelti dal fato che erano riusciti a mettere le mani sul gioco. Non era più tanto una questione di sfida, né tanto meno del ritorno alle vecchie glorie del passato che tanto avevano fatto patire i giocatori. Era più una falsa sensazione di libertà. La libertà di affrontare un’avventura su più livelli, scegliendo diversi percorsi in base all’esperienza di cui volevamo godere.
Dark Souls, il suo seguito spirituale, raffinava al meglio ciò che non andava in Demon’s Souls, offrendo un gameplay meno grezzo e più lineare. La difficoltà nei due titoli non è sicuramente figlia di un game design ideato per richiedere un’elevata dose di impegno e capacità, ma bensì di un buon utilizzo di foreshadowing e illusioni, misto a una dose di realismo che alimenta la fiamma della disperazione.
Il più grande pregio riconosciuto a Dark Souls è infatti la sua struttura narrativa, che non si pone come particolarmente complessa e ricca di spiegazioni, allontanandosi dall’ormai standard pseudo-cinematografico. È invece piuttosto lineare e scontata, lasciando però nei pochi dialoghi e nelle descrizioni indizi che aiutano in primis a contestualizzare ciò che vediamo, ma in secondo luogo a dare forma a ciò che ci attenderà.
Il sapere già dall’inizio gli orrori che dovremo affrontare, anche se solo introdotti da una semplice animazione che si ripete in ogni gioco (la cutscene dove il nostro personaggio deve per forza mettere la mano su qualcosa di palesemente infausto), rende sicuramente qualsiasi situazione più infernale di quello che sembra. Il gioco tende a farci sentire piccoli, non solo a causa delle nostre dimensioni ma anche per le nostre origini.
Cavalieri, monaci, stregoni, cacciatori…
Poco importa, agli occhi delle bestie e delle divinità che andiamo ad affrontare siamo nulla più che teneri agnellini. Salvo poi scoprire che i nostri nemici che consideravamo divini non sono altro che buffoni da abbattere in tre colpi e con una mano in tasca. Ma ciò che conta è l’immagine che ci viene inculcata nelle nostre menti dagli npc e dalle reliquie che troviamo durante il nostro viaggio.
Tale “misticità” si va un po’ a perdere nel gioco successivo, Dark Souls II, che risulta fin troppo campato in aria e debole.
Nonostante questo, il danno era già stato fatto.
Il mondo era stato sconvolto.
Grazie ai vari Youtubers che hanno fatto un’indiretta campagna pubblicitaria al brand, Dark Souls ha raggiunto nuove vette che gli hanno fornito un’aura trascendentale. Difficoltà, combattimenti tattici e realistici, lore complessa e personaggi indimenticabili. Questi punti che sono profondamente acclamati dall’ormai enorme schiera di fan del brand sono anche in parte veri, ma tutto ciò non è stato creato dalla qualità del gioco.
Ma dall’illusione che Hidetaka Miyazaki è stato in grado di costruire.
Bloodborne è forse l’apice qualitativo dell’ormai nuovo genere “souls-like”, che ha portato sempre più giochi hack’n slash a prendere quella forma. Titoli come Nioh, Code Vein, God of War.
Tutti, sia in grande che piccola parte, sono arrivati a guardare con rispetto Dark Souls, prendendolo come modello per la creazione di giochi altrettanto fantastici.
Con il termine della saga di Dark Souls, avvenuto con gli eventi di “Dark Souls III: La città ad anelli“, i fan tengono il fiato sospeso in attesa del prossimo nuovo titolo.
Sarà un seguito del titanico Bloodborne?
O forse, come la From Software ha già annunciato, sarà un nuovo brand chiamato “Shadows die twice“?
E’ però sicuro che il mondo videoludico è stato sconvolto da questo brand, facendo aggiungere un tocco di “oscuro” a tantissimi nuovi, e vecchi titoli.