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Quando si parla di libri, e di saghe fantasy più nello specifico, si deve farlo tenendo sempre bene a mente alcuni dovuti distinguo. Ci sono quei libri che piacciono, ed è una cosa bella. Ma ci sono invece quelle storie che fanno uno scalino in più, e sono grado di rapirti l’anima.
Più che una necessità, avere chiara questa differenza, è un dovere. La persona che si appresta a consigliarvi un libro sa di doverlo fare avendo ben in mente che, a seconda dell’uno o dell’altro caso, corrisponderanno due netti stili di comunicazioni in cui si dovrà in qualche modo rispecchiare, per una responsabilità acquisita verso il suo interlocutore nel momento stesso in cui ha deciso di consigliarlo.
Quando si deve consigliare un libro che piace è giusto imbastire un’ottima conversazione, basata su una vissuta spiegazione della trama e una più che buona argomentazione delle meccaniche salienti del libro, grazie alle quali si avrà la possibilità di tentare di incuriosire l’ascoltare di turno, esponendo ciò che per noi è stato fonte di piacere.
Quando si deve consigliare un libro che invece, come detto sopra, rapisce di netto il cuore, le cose sono ben diverse, e generalmente di chiarezza proporzionalmente opposta. Si potrebbe pensare che nel secondo caso la manifestazione debba essere ancora più nobile ed eloquente, e che se qualcosa ci è piaciuto così tanto non può che essere chiaramente trasmissibile e manifestabile. Tutto l’opposto.
Quando un libro ci rapisce l’anima la conversazione non può che partire da farfugliamenti, ampie gesticolazioni, conditi da continui e ricontinui imbastimenti di frasi che regolarmente non vengono mai portate a termine. Il discorso vira e vira di continuo, l’ascoltare si sente nel mezzo di un mare in tempesta, e probabilmente, alla fine del discorso, avrà capito l’uno per cento di quello che il lettore stava tentando di dirgli. È così che funziona.
E funziona. Perché solo così una persona potrebbe davvero esprimere e far capire quella dipendenza in cui quella saga fantasy lo ha intrappolato.
Questa introduzione serve più che altro per farvi capire fin da subito che quello di cui vi sto per parlare, in piena responsabilità, come vuole la tradizione, fa parte senz’ombra di dubbio del secondo gruppo.
Se vi è più facile immaginatemi in piedi di fronte a voi, mentre tento di imbastire un discorso senza senso, o mi perdo in deliri fermandomi e ricominciando subito dopo, il tutto per tentare di farvi capire che queste “Le Cronache dell’Assassino del Re”, sono qualcosa di diverso. Di profondamente diverso. Qualcosa che vi rapirà e trasporterà così lontano da non farvi ricordare nemmeno l’istante in cui siete partiti. Un nuovo mostro sacro, capace di farvi riprovare quella sensazione di assoluto abbandono che pensavate essere andata perduta con le più celebri saghe uscite finora, ormai parti delle canoniche conversazioni da serata al pub.
– Ti piace il fantasy? Certo! Harry Potter, ti è piaciuto? Stai scherzanzo? Solo i film o anche i libri? Tutti ovviamente! Il signore degli anelli? Non mi pare neanche il caso di rispondere…stop un secondo.
Trapiantatevi a dieci anni da ora. Prendete coscienza. In quella futura lista fatta ad un nuovo pub, ci sarà questa saga.
Ed è quindi bene che iniziate a conoscerla già da ora.
Anche perché, inizia proprio così…da un racconto in una taverna.
Una miscela di stili
Quando dicevo che queste cronache sono un qualcosa di totalmente diverso non sono stato del tutto sincero. In realtà la saga, che al momento conta due libri (rispettivamente “Il nome del vento” e “La paura del saggio” in attesa della chiusura che avverrà con il terzo capitolo) in sé e per sé non offre nulla di realmente originale, anche perché inventare, vista la mole di storie che siamo arrivati ad accumulare sul pianeta, sta diventando roba quanto mai impossibile. Quello che fa per distinguersi, arrivando a rendersi un vero e proprio diamante delle letteratura fantasy, va ricercato più nell’incredibile miscela che riesce a generare. Ma a questo ci arriveremo dopo.
Viste le abbondanti sinossi che potete trovare in rete non vi annoierò con il contenuto della trama, ma in fattore di narrazione mi piacerebbe soffermarmi su un particolare che riveste una certa importanza in fase di identificazione dell’opera, ovvero la titolazione della saga, elemento che si rivela totalmente fuorviante. L’ipotesi di stile e di racconto che una persona è pronta farsi nel sentire quell’altisonante (e un po’ sanguigno) “Cronache dell’assassino del rè”, non potrebbe essere più distante dal tipo di storia che il lettore si troverà invece davanti. Se vi siete messi sull’attenti, un po’ impauriti dalla crudezza del racconto, non temete: l’opera viaggia su note di tutt’altro genere. Le stesse che si sposano in maniera deliziosa con quel delicato “Il nome del vento”, capitolo che introduce al lettore la genesi del protagonista indiscusso di questa storia, quel Kvothe (ma si pronuncia Khvot, badate bene) che rimane lì in attesa, pronto e preparando per entrare nell’olimpo dei personaggi letterari.
Il libro stesso è per la gran parte l’autobiografia dello stesso personaggio (mitico anche nella storia stessa, in qualità di eroe scomparso). Kvothe, seduto al tavolo della sua taverna, racconterà ad un Cronista il racconto di tutto l’arco della sua vita fino al presente narrante in cui si colloca l’inizio del racconto (un gigantesco flashback), svelando quella che è stata la vera storia di un personaggio divenuto parte della storia e dei racconti di quel mondo.
La narrazione in prima persona è lo strumento perfetto con cui l’autore ci immerge direttamente nel centro di questo personaggio, facendoci filtrare ogni dettaglio dell’ambiente e delle vicende mediante la sua lente. Escamotage che diviene già dall’inizio (nonostante il primo centinaio di pagine fatichi ad incatenare il lettore) la vera arma letale di questa saga. Kvothe è un personaggio assolutamente geniale, un piccolo prodigio sia per quanto riguarda il suo intelletto, sia per quello che concerne il talento come musicante. La mente in cui il lettore naviga diviene quindi una macchina da presa capace di soffermarsi su qualunque dettaglio di poco conto per renderlo inaspettatamente interessante. L’animo romantico del personaggio sfuma tutto quello con cui viene a contatto rendendolo vissuto e appassionante, mentre la mole di dettagli, piuttosto che sovraccaricare la lettura, finisce per rendere partecipe il lettore di un mondo disegnato a 360 gradi coerente con sé stesso, una vera e propria catena dalla quale è impossibile sganciarsi.
E dire che Rothfuss, sulla carta, se la gioca pure con il vento contro. L’autore affida tutto il successo del libro a un personaggio difficile da far amare al lettore ( solitamente si prediligono i personaggi che si avvicinano alle qualità della gente comune per aiutare il lettore ad immedesimarsi nel racconto). La sua creatura è però composta con tale abilità da disinnescare questa possibilità grazie un animo convincente e fascinoso, per lunghi tratti irresistibile. La tragedia globale che il personaggio vuole raccontare inoltre (una raccontata, l’altra più diffusa e ancora celata, sottintesa fra le molte righe del testo), permette al lettore di mettersi letteralmente al fianco di Kvothe: un ragazzo caduto in miseria che da solo tenta di tenersi a galla in un mondo ostile, affrontando le difficoltà comuni di ogni giorno, spinto dal suo desiderio di vendetta e di rivalsa verso questo popolo demoniaco sperduto fra leggende e favole per bambini alle quali nessuno ormai crede più.
Quello che ne viene fuori è un diario giornaliero in cui ritroviamo lo stile Dikensiano, capace di raccontare nel dettaglio le aspre e misere vicende di Oliver Twist, e il fantasy moderno, dove i richiami portati da questa “Accademia” finiscono per riesumare la genuinità del vivere scolastico di Harry Potter. Proprio da quest’ultimo però si discosta totalmente. La mitologia fantasy in cui si pesca rievoca mondi più antichi e solenni, mescolando leggende e miti con un animo più nobile e romantico. Queste storie si perdono nell’alba dei tempi, tratteggiano lentamente un mondo leggendario che cresce sempre più nella mente del lettore e arriva a creare un luogo indefinito lontano ere, di cui si percepisce la presenza grazie a quei racconti tramandati per via orale; narrazioni che fanno perdere il confine tra ciò che è vero e ciò che invece il racconto ha tramutato in fantasia.
Il centro del racconto spesso vira proprio sulla potenza di queste “storie”, donando loro un’attenzione paritaria al racconto principale (e la meritano eccome!) e la loro mutevolezza è la stessa sfruttata dallo stesso Kvothe per forgiare la sua leggenda: nello specifico, quella di un eroe capace di compiere magie incredibili, mentre al lettore vengono mostrati i fatti realmente vissuti con la dovuta ironia che scaturisce dal contraltare del tramandamento popolare.
Due concetti di magia
Argomento assolutamente importante per la costruzione del mondo e delle vicende del personaggio è, come in ogni fantasy che si rispetti, quello relativo ai meccanismi che permettono la “regolamentazione” della magia.
Uso i termini meccanismi e regolamentazione non a caso, perché nel mondo di Rothfuss la magia è quanto di più distante esista dal fatato e semplicistico modo di intenderla immaginato dalla Rowling (per potervi dare un esempio che permetta i dovuti distinguo). La possibilità di evocare incantesimi senza alcuna regola viene totalmente accantonata da quella che nel mondo viene definita come “Simpatia”, una sorta di vera e propria scienza, un’alchimia tra fisica e chimica che permette di legare gli elementi del mondo dando via ad una tramutazione dell’energia che ad occhi esterni potrebbe essere intesa come semplice magia, mentre cela dietro il suo utilizzo il rispetto di vincoli e regole molto precise, e raccontate in maniera tale da potesi intendere come credibili.
La scrittura di Rothfuss su questo aspetto evidenzia tutta la fatica necessaria a creare un sistema così ligio.
L’inscenamento della simpatia viene sempre presentato con estrema precisione, non tradendo la fiducia che il lettore inizia a riporre in questo meccanismo, e che lo rende, via via che ne comprende le regole, sempre più partecipe e interessato a scoprire cosa si inventerà Kvothe per cavarsela.
Se quindi da un lato Rothfuss disillude il lettore, asciugando l’aspetto magico di molte libertà o fantasticherie, il vero colpo di genio è proprio quello di affiancare a questa materia un’altra arte dai connotati più mistici e sovrannaturali, con cui il lettore può tornare a sognare: l’onomanzia. Tramite la conoscenza e la comprensione del “nome delle cose” i personaggi hanno la possibilità di evocare e dominare forze di un mondo che finalmente si concede in pieno al fantastico iniziando a svelare gli antichi segreti tramandati nei racconti, i quali perdono la loro fattezza di leggende per venire sempre più a contatto con la realtà.
L’alternante emergere del fantastico più puro in un mondo per certi versi così asciutto e preciso è l’altra arma con cui l’autore lega il lettore allo scorrere della pagine. Un contraltare efficace che decide di non rinunciare a niente di quello che la lettura può offrire, ovvero regole precise, e voli pindarici capaci di pescare dall’inaspettato.
Ma cosa rende questa storia così fantastica? Tentando si spiegare l’inspiegabile, la vera magia di questa saga sta proprio nel metterti a fianco di Kvothe giorno per giorno, ora per ora, tanto che nel raccontare la narrazione principale viene difficile trasmettere perché questa storia possa risultare di vero interessante, dato che, in sé e per sé, la storia ha un centro, ma se ne dimentica per lunghissimi tratti lasciandosi andare al semplice quotidiano vivere del ragazzo in cui siamo incarnati. Elemento non comune, e che potrebbe indispettire non poco sulla carta, ma di fronte ad una scrittura così fluida e un personaggio così interessante nelle sue mille sfaccettature il lettore finisce per seguire l’autore come un cane al guinzaglio, cedendo volentieri la sua attenzione su qualunque momento di relativa importanza, come una serata al pub con gli amici o l’attimo in cui decide di prendere in mano il suo liuto e vivere la sua musica. Attenzione che viene poi incanalata con costanza nelle pene d’amore provate per un rapporto che traina il personaggio per tutto il tempo del suo racconto, e che vi permetterà di vivere la sua crescita, la sua formazione, i suoi sbagli, i suoi successi, i suoi cambiamenti. Stando al suo fianco fra le strade di Tarbean mendicando un tozzo di pane, accedendo a quell’Accademia tanto sognata, o mettendo da parte il denaro necessario alla semplice sopravvivenza.
Chi si appresta a viaggiare ne “Le Cronache dell’Assassino del Re” è avvisato.
Non è una lettura che si affronta per passare il tempo. È un racconto che prende letteralmente possesso della propria giornata, e la scambia per quella del personaggio che sta al di là di quelle pagine.
Non è nemmeno una lettura che si affronta da soli, bensì con a fianco il personaggio stesso. Lo vedrete fisicamente lì davanti a voi, intento a raccontarvi le sue mille disavventure giornaliere. A tratti gioioso, a tratti malinconico, a tratti muto per una rabbia repressa in sé stesso per troppi anni. Condividerete con lui la sua leggenda, la sua tragedia, e lo aiuterete a sostenerla, a tentare di rinascere.
E quando racconterete di lui sentirete quel peso.
Il peso di dover comunicare quanto vi siate innamorati di questi giorni vissuti assieme , balbettando, cambiando discorso ogni cinque secondi per far capire davvero a chi vi sta di fronte quanto questa storia non sia semplicemente un libro che vi è piaciuto, ma qualcosa arrivato dal nulla per stravolgervi completamente.
Una lettura semplicemente obbligata per chiunque voglia farsi del bene.
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