Questo sito contiene diversi annunci Amazon. A ogni vostro acquisto riceviamo una piccola commissione.
Le esclusive Sony di spessore spesso marcano un punto di rottura nell’industria. Tutti han gli occhi puntati a questi titoli che possono cambiare totalmente il trend del mercato. Dopotutto The Last of Us rimane tutt’ora un esempio di storytelling rispettato e copiato, sebbene God of War sembra aver rovesciato le carte in tavola. Questo discorso di influenza è ancora più marcato nel caso si parli anche di un gioco Quantic Dream; che nel bene e nel male è sempre stato iconico nella sua unicità. Gli occhi sono quindi puntati tutti su Detroit: Become Human, ultima fatica di David Cage e Quantic Dream, che devono riprendersi dallo scivolone rappresentato da Beyond: Two Souls.
Il meglio di Cage, ma comunque un’opera di Cage
Detroit: Become Human si pone come un opera molto ambiziosa. Il genere sci-fi futuristico conta purtroppo sempre meno esponenti. Inoltre il tema degli Androidi con coscienza è stato già trattato in opere dall’enorme spessore, con le quali si va a inevitabilmente a competere. Purtroppo Detroit non è il Blade Runner videoludico, avendo fin troppe ingenuità narrative e alcune lacune non ignorabili. Entrerò maggiormente nel dettaglio a breve, ma anche considerando i problemi narrativi, Detroit: Become Human è, ad ora, la miglior opera di Quantic Dream. Il gioco si divide in 3 storie intrecciate tra loro, ognuna con un proprio protagonista. Si andrà quindi a vivere l’avventura di Kara, Connor e Markus. Questa premessa serve per un motivo, i più grandi problemi di questo titolo provengono da una sola di queste storie, e da una scelta particolare riguardo ai finali.
A volte è meglio non giocare come l’antagonista…
Il contesto di Detroit è molto affascinante. La premessa degli androidi divenuti parte della vita, in coesistenza e supporto degli umani, ma senza la creazione di una distopia è convincente. Sebbene i clichè non manchino, Cage ha cercato di interpretare a modo suo il genere, riuscendoci anche nel complesso. Le prime ore di gioco sono fantastiche nello stabilire il mood di ogni storia, grazie anche a delle composizioni musicali spettacolari che accompagnano i nostri 3 androidi. Il gioco però comincia ad avere qualche incertezza con la comparsa della Devianza: un fenomeno che porta gli androidi a provare sensazioni umane. Questo elemento incide pesantemente sui nostri 3 protagonisti, con risultati altalenanti. Se all’inizio le 3 storie sembravano tutte promettere bene, una comincerà a perdersi dopo qualche scena.
Parlo di Markus, l’androide “rivoluzionario” già visto nei trailer. Nella storia di Detroit Markus è essenzialmente ciò che più si avvicina ad un antagonista, ma che Cage ha deciso di scrivere come anti-eroe. Ora, quante volte avete pensato di voler vivere le storie di qualche antagonista carismatico? Scommetto diverse. Chi non ha mai voluto vivere la storia di Big Boss dopo aver giocato Metal Gear Solid (cosa che accade tra l’altro nel terzo capitolo), o approfondire la mente di un villain come Joker. L’idea quindi di aver il controllo di Markus è interessante, ma l’esecuzione di quest’ultima è quasi disastrosa.
Pur avendo alcune scene molto suggestive, Markus non solo risulta banale come personaggio, ma le sue azioni son spesso forzate o inspiegabili, sia per motivazioni che per la loro stessa esecuzione. Senza alcuna spiegazione ci si ritroverà ad aver quasi dei superpoteri, con dei piani da far invidia al buon Lupin ma senza il carisma del ladro gentiluomo. La situazione non è vergognosa, perché comunque Markus ha delle ottime scelte di roleplay, che possono portare a creare una figura abbastanza affascinante. Questo però non cambia la mia opinione: nel caso Markus fosse stato un NPC e avessimo vissuto le sue azioni dall’esterno tramite la mente fredda di Connor e l’empatia di Kara, probabilmente sia il gioco che lo stesso personaggio ne avrebbero giovato.
…specie se i protagonisti sono troppo migliori
Per quanto riguarda Connor e Kara invece, le lacune sono molto minori. Sebbene qualche lievissima ingenuità ci sia anche nelle loro storie. Connor è il detective presentato per diversi anni all’E3 da Quantic Dream. Il suo gameplay ricorda molto la prima scena di Jayden, detective di Heavy Rain. In quasi ogni sua scena si dovranno cercare prove per risolvere problemi che riguardano androidi. La sua storia, qualsiasi sia l’outcome, è promossa a pieni voti. Connor è il vero protagonista del gioco, con un software instabile che gli permette di diventare più freddo o umani in base alle nostre azioni e un carisma inaspettato da un androide.
Ad accompagnarlo abbiamo anche un NPC magnifico, Hank, che impreziosisce ancora di più quella che probabilmente è la storia più bella di Detroit. L’unica piccole lamentela che posso rivolgere alla storia del detective nello specifico è una somiglianza alla storia di Jayden da Heavy Rain. Se Connor è il protagonista di Detroit, Kara invece è la protagonista di quello che poteva essere uno spin off del titolo.
La storia della nostra androide infatti è parallela a quella di Markus e Connor, non influisce sulla macrostoria di Detroit, ma racconta l’avventura di una piccola famiglia in cerca di una salvezza. Kara dimostra nuovamente come Cage sia un intimista, in grado di creare empatia con molta più facilità in ambienti più familiari. Inoltre questa linea narrativa è probabilmente quella con le scene più forti. Peccato solo che tutto Detroit sia marchiato da una mancanza enorme, una spiegazione di un elemento base della storia, la Devianza. Eppure tale spiegazione è presente nel gioco, ma solo se si raggiunge uno specifico finale, che sembra molto un “True Ending” in stile Visual Novel. Il problema però, è che questa spiegazione, pur creando la linea narrativa migliore di Detroit, risulta incoerente con gran parte degli altri finali alternativi del gioco.
Un’esperienza cinematica
Detroit: Become Human è un gioco in cui di “gioco” c’è relativamente poco. L’interazione è presente, è molto ben fatta e non annoia chi sa a cosa va incontro, ma bisogna tener sicuramente in conto che nei giochi Quantic Dream non si gioca molto. In questo titolo si è anche facilitati nell’esplorazione, grazie alla vista degli androidi che ci dirà subito cosa è interagibile e cosa no. Non c’è quindi da aspettarsi un’avventura grafica in stile LucasArts, anche perché Detroit punta più all’intreccio ramificato. Ogni volta che si finisce una scena comparirà un flowchart con tutte le scelte compiute dal giocatore e relativo finale ottenuto. Le ramificazioni raggiunte da questi flowchart sono spaventose, tanto che compiendo azioni anche solo leggermente diverse si potranno avere esiti sorprendentemente differenti.
È grazie a questa influenza pesante e reale del giocatore sulla storia che Detroit appassiona. La forza del titolo però non sta solo nelle sue diramazioni, ma anche nei suoi comparti artistico e tecnico. La mole di lavoro posta dietro la realizzazione di personaggi, ambientazioni e persino vestiti è impressionante. L’atmosfera creata è tanto curata da sembrare un reale nostro futuro. Da accompagnare tutto ciò c’è una colonna sonora ottima, con qualche traccia degna dei migliori compositori del settore, che riesce a rappresentare sia la Detroit futuristica, sia i tre personaggi. Anche tecnicamente Detroit è eccezionale, non ho mai avuto alcun calo di frame rate, nemmeno nelle scene più concitate, con tanto di caricamenti ben nascosti dietro alla schermata di flowchart.
Non possiamo infine parlare di Detroit senza parlare della prova attoriale che lo contraddistingue, il Motion Capture ha fatto passi da gigante, e questo titolo lo dimostra. Certo, quando hai ottimi attori tutto diventa più facile, ma ciò non toglie il merito nè agli attori nè ai programmatori che li hanno inseriti in un contesto tanto reale da essere uno dei, se non il, top graficamente presente nell’industria videoludica. Questo è ottenuto a discapito dell’interattività con l’ambiente, ma è un prezzo che, specie in un gioco come Detroit, pago volentieri.