Perché The Mandalorian è riuscito dove gli altri hanno fallito

The Mandalorian
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Del 2020 fortunatamente non ci saranno solo cose orribili da ricordare per alcuni di noi. Citiamo, a titolo di esempio, i fan di Star Wars.


Proprio in chiusura d’anno la Disney decide di rendere meno pesante questo periodo sciagurato dando finalmente i natali a quel “qualcosa” che tutti attendevano da tempo. Il risveglio della forza.
No, non stiamo parlando del primo episodio della trilogia cinematografica gestita dalla casa di topolino, ma di un risveglio della forza vero e proprio.

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I fan della saga delle saghe dopo l’acquisizione del brand da parte del colosso americano sembravano ormai essere certi che la loro storia avesse perduto “la via”, a causa del risultato qualitativamente disomogeneo degli ultimi tre episodi usciti in sala. Segnali positivi, a ben intenderci, ce n’erano comunque stati, ma l’ottima prima stagione di The Mandalorian, la gran chiusura in corso d’anno di The Clone Wars, e l’affermazione di Rebels etc., non sembravano aver cancellato ancora interamente il sapore di amaro dalla bocca, lasciando sussistere sospetti rispetto alla direzione generale della nave principale. 


Con la chiusura della seconda stagione di The Mandalorian le cose sembrano essere invece radicalmente cambiate. Le reazioni entusiastiche della fan base per la prima volta rasentano l’unanimità, e hanno trasformando quello che era già un emblema di rinascita e di qualità (The Mandalorian) in un vero e proprio fenomeno capace di rivaleggiare, partendo addirittura dal piccolo schermo, con i migliori episodi del franchise.
Un risveglio della forza, dicevamo, da un posto inaspettato. Ironicamente sembra una parabola in pieno stile Star Wars: da un piccolo pianeta dimenticato cresce la forza in grado di dare il via alla resurrezione di un’intera galassia.

Questo articolo non tenterà però né di incensare nuovamente l’impresa del mandaloriano più adorato dell’universo, né di gettare nuove critiche sulla saga sicuramente più discussa dell’intero ciclo.
La cosa veramente interessante che dovremmo chiederci in questa situazione è: quali sono stati realmente i fattori produttivi che hanno determinato l’ascesa di questo prodotto? E quali sono stati invece quelli che hanno determinato la caduta della saga finale?


Cosa non aveva funzionato: le solennità perdute

Le situazioni di partenza stranamente potrebbero sembrare incredibilmente similari: una storia ambientata post Episodio VI, più registi associati ad unico progetto, la volontà di andare incontro comunque alle esigenze di un pubblico moderno senza scontentare i vecchi fan. Da medesimi intenti ci si potrebbero attendere similari criticità, se non proprio risultati. E invece ecco che da una parte le cose vanno a meraviglia mentre dall’altra la nave imbarca acqua.

Riassumiamo, ai soli fini analitici, in cosa consiste, quest’acqua: la nuova trilogia (che vedeva il duo di protagonisti Rey e Kylo Ren) è stata criticata principalmente per una direzione artistica tremendamente incerta, rea di bruschi cambi di rotta, a causa dei quali, purtroppo, storia e personaggi non sono riusciti a emergere in maniera uniforme e coerente con gli scopi del racconto, il quale aveva comunque i suoi ottimi spunti, e grandi premesse (su tutte quella di portare alla ribalta dei personaggi più grigi, non totalmente votati all’uno o all’altro lato della Forza). L’effetto finale era similare alla performance di un attore molto bravo, ma non totalmente in parte. Per incontrare il benvolere del nuovo grande pubblico (che questa storia pensava di attrarre) sono state rimodellate le componenti ‘comedy’, le quali hanno sia acquisito un maggiore screen-time, sia sono state rimodulate su uno stile decisamente più pop rispetto alla sottile ironia di cui Star Wars si era da sempre fregiato. Due fattori che, uniti insieme, potevano far poco ben sperare rispetto all’accoglienza che tali modernizzazioni avrebbe trovato ad attenderle. Non per chissà quale elitarismo. Più che altro perché la funzionalità delle storie della galassia lontana lontana è sempre stata basata su archetipi che non dovevano essere alterati, in quanto erano la stessa base fondante del loro straordinario successo. Archetipi che parlano di un certo tipo di ritmo narrativo, il quale trae spunti dai western e dalle produzioni del maestro Kurosawa. 

Questo ritmo (così particolare per uno sci-fi a tinte fantasy) riusciva a conferire alle pellicole la solennità necessaria per raccontare storie che toccavano temi introspettivi e spirituali, mantenendosi comunque semplicistiche, dotate di colpi di scena ben dosati, pregne di una freschezza fondamentale per una diffusione capillare tra il pubblico main stream, ma che non finiva mai per risultare preponderante sul resto. Contorcendosi all’inverosimile su una trama contorta e scricchiolante in più punti, la nuova trilogia ha sparso la formula delle meraviglie sul terreno. A permettere questo una Disney totalmente assente, acerba nella gestione di un brand che ancora non aveva evidentemente assimilato. La scelta di assegnare i diversi capitoli della una nuova trilogia originale a diversi registi non è stato un male di per sé (considerando che il regista de “L’impero colpisce ancora”, ritenuto il miglior film di Star Wars, non è nemmeno diretto da George Lucas). Il grave errore di produzione è stato quello di non obbligare questi registi a “parlarsi”, non aiutandoli così a mantenere una visione artistica univoca e certa, quanto più pianificata, e non affidata all’improvvisazione del momento, né totalmente piegata ai desideri del singolo. Situazione ancora più problematica quando la palla passa di mano da J.J Abrams, (regista comunque in linea con il filone cinematografico lucasiano e spielberghiano degli anni 70’ -80’) a Rian Jhonson, che con un certo tipo di cinema invece non si era mai minimamente confrontato (dichiarando inoltre a più riprese che la cosa che più apprezzava di Star Wars erano le parti comiche). George Lucas se non era alla regia dell’episodio era comunque sul set, o coinvolto fino all’ultimo dettaglio nelle scelte di produzione. Non c’era modo di sgarrare.


Non si è sgarrato, difatti. E non è un caso.


Ripartire dai propri sbagli



Se quindi i motivi legati alla criticabilità del progetto ‘nuova trilogia’ appaiono ben chiari, i motivi del successo di The Mandalorian si possono trovare esattamente sullo stesso asse, come se improvvisamente ci si fosse accorti di tutto quello che non aveva funzionato e si fosse deciso di porvi rimedio, pur senza tradite i propri propositi realizzativi, ovvero innesto di novità e raggiungimento del nuovo grande pubblico di massa.


È così che il progetto viene assegnato a Jon Favreau, il quale crea un vero e proprio team creativo a cui commissionare i vari episodi della serie. Sotto la sua supervisione, nella prima stagione, operano ben cinque registi (lui compreso) mentre nella seconda stagione il numero sale a sette. Si passa da personalità più celebri (Taika Waititi, Robert Rodriguez) a registi meno conosciuti al grande pubblico (Rick Famuyiwa), ad attori del calibro di Bryce Dallas Howard, qui alla sua prima prova di maturità registica.


C’è di tutto e ce n’è per tutti. E c’è anche, quindi, la possibilità di incappare nuovamente nel problemino di una serie che possa sfuggire al controllo creativo al minimo sgarro di qualche testa troppo incentrata sulla sua visione rispetto a quella delineata dalla produzione.


Così però non è. E, soprattutto, non può essere. Il team creativo è coeso. Pur diviso sui vari episodi di competenza i registi lavorano come un unico organo, sapendo già dove la supervisione di Favreau vuole portare il progetto, e soprattutto il registro comune a cui tutti si devono attenere.


Il registro è fornito fondamentalmente, e per la maggior parte, da Dave Filoni, il quale potrebbe essere semplicemente considerato come una sorta di George Lucas 2.0, per qualità dimostrate sin ora nel mondo di Star Wars. Pescato direttamente dalla seria animata The Clone Wars, si può dire (come spesse volte gli ricorda il suo stesso team) che Dave sia

Star Wars. Prima di un regista è ancora quel bambino che ne conosceva ogni fotogramma, passione che lo ha portato a collaborare direttamente con George Lucas (in The Mandalorian coinvolto anche nella produzione), e che gli ha permesso di sviscerare fino in fondo tutte le fonti di riferimento e di ispirazione a cui lo stesso Lucas ha attinto. Per fare uno Star Wars che funzionasse e che non sembrasse un prodotto artefatto Disney ha riconosciuto l’importanza di avere all’interno del team persone che respirano la saga da sempre; una resa finale di alta qualità può essere garantita esclusivamente da quella componente di contesto che dall’esterno è difficile da decifrare, figuriamoci da ricreare. Non sono i Jedi, le spade laser, a fare di Star Wars il brand che è. Si possono creare prodotti perfettamente in linea con la saga portando anche al minimo la presenza di questi elementi, purchè non si manchi di rispettare le sue grammatiche di base.

The Mandalorian

Questa è la via


Non è un caso se questo The Mandalorian assume le sembianze di un western o di un film di Kurosowa più e più volte (lo scontro all’arma bianca nell’episodio “La Jedi” è letteralmente da cineteca), e se si respira quel tipo di “aria” anche quando Taika Waititi porta la regia, come di consueto, sui binari comici che gli sono consoni vuol dire che le cose possono benissimo funzionare senza escludersi. Nessun episodio difatti  fallisce nel trasmettere quella solennità tipica del brand


Dave Filoni, assieme a Favreu, si muove tentacolarmente su tutti i set. Il team si massacra riguardando all’ossessione le migliori pellicole dei generi cinematografici sopracitati. Ammettono che vogliono arrivare dove è arrivato Lucas non tanto traendo da quanto da lui direttamente creato, ma (cosa più importante) lasciandosi ispirare direttamente da quello a cui lui stesso si è ispirato; non emulare quindi, ma attingere dalla stessa fonte per tentare di arrivare al medesimo risultato.

Il team funziona, in tutto, e grazie alla sua poliedricità riesce ad innestare le peculiarità registiche di ognuno in tutti gli episodi senza creare dissonanze, sfruttando le nuove tecnologie messe a disposizione dalla produzione in maniera efficace ed esplorativa. L’utilizzo dei video wall (un’ambiente interamente composto da schermi giganti che pre-renderizza l’immagine dell’ambiente in maniera immediata) permette un’immersività totale nel contesto, sia per gli attori che per il resto del cast, e una resa molto più artigianale delle riprese, che non tradiscono la volontà di aderire al canone qualitativo delle pellicole cinematografiche. “Ci davamo idee reciproche, sembrava di lavorare con la stessa leggerezza di un gruppo di adolescenti che fa video su You Tube”. È questa dichiarazione di Dave Filoni a dimostrare l’esistenza di un collettivo artistico che ha funzionato come un’orchestra. Che ha saputo raccontare qualcosa di semplice, e di focalizzato (come la storia del rapporto di attaccamento tra Il Mandaloriano e Grogu), senza lasciarsi sviare da idee troppo complesse e inutilmente articolate. Il brand Star Wars è fatto, in fondo, di questo: storie dirette, ed emozionanti. Si pensi al rapporto salvifico tra Darth Vader e Luke, o la lenta erosione di Anakin Skywalker della saga prequel. Sono queste idee, semplici e concise, a far attaccare il pubblico allo schermo. Tutto quello che gira attorno è una splendida conseguenza, ma il binario principale su cui la storia si muove non può essere incerto, o, ancor peggio, continuamente improvvisato e rivisto.
Ed ecco raggiunto quel grande nuovo pubblico di cui proprio Disney era in cerca per giustificare con ancor più forza l’investimento di 4,05 miliardi di dollari per l’acquisizione del brand; incontrato, qui, con piena soddisfazione, dato che la seconda stagione di The Mandalorian è stata la serie più piratata del 2020 con soli due mesi di vita all’attivo.


La cosa più importante che ci lascia The Mandalorian sin’ora, è assurdo dirlo, ma non è tanto il prodotto stesso, quanto la dimostrazione tangibile che Disney abbia finalmente compreso la formula obbligatoria da utilizzarsi per la produzione dei futuri prodotti legati al brand. Anche grazie ai passi falsi compiuti ora la compagnia ha avuto la possibilità di realizzare quanto sia importante avere un team creativo composto da figure coese e, soprattutto, quando sia fondamentale avere figure che riescano a tirare le fila, supervisionando attentamente dall’alto la direzione dell’intero progetto. Oltre a Dave Filoni. Perché lui è unico, ed è davvero un pezzo imprescindibile di tutto questo mosaico.


Con il finale della seconda stagione di The Mandalorian è parso davvero chiaro.

Il tremito si è chiaramente percepito. La Forza, questa volta, si è davvero risvegliata.

Sull'autore

Alessandro Tonoli

Grande appassionato di Videogiochi fin dalla più tenera età (si narra sia stato partorito in ritardo in quanto non avendo salvato, non poteva uscire) si diverte a scrivere per questo o quell'altro sito pur di dare un suo piccolo contributo alla diffusione del Videogioco come mezzo, non solo ludico, ma anche artistico ed emotivo.
Da buon Boxaro preferisce i boxer agli slip.