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Sin dagli albori la metodologia d’intrattenimento “attiva”, per antonomasia denominata “gioco“, è stata inopinabilmente caratterizzata da questa fantomatica iterazione detenuta dal suddetto fruitore in grado di inglobarsi con un sistema d’intrattenimento (essendo parametri complementari) che riesce di conseguenza a manifestarsi mediante un costrutto che predilige la sfida ed il divertimento.
Essendo il videogioco un’estensione innovativa del medium d’intrattenimento sopracitato diviene ancor più labile, grazie ad un’esperienza molto più immersiva, decrittare il concetto di sfida all’interno di un videogame che seppur strizzando l’occhio in questi ultimi anni al suo “fratello gemello” cinema, regalandoci esperienze ludo/narrative come la Metal Gear Saga e la serie Bioshock che, soggettivamente parlando, rappresentano l’apice artistico e culturale del medium odierno. Ci garantiscono, differenziandosi dalle suddette pellicole cinematografiche, un’esperienza “attiva” dettata esattamente dalla possibilità di interagire con questo mondo virtuale, permettendoci di plasmare gli avvenimenti trattati con tempistiche e modi a nostro “gaudio e diletto”. A rigor di logica bisogna rammentare che ugualmente la cinematografia non rappresenta del tutto un esperienza “passiva”, bensì è in grado di interagire con il fruitore utilizzando una metodologia meno diretta ma al contempo estremamente contemplativa, volta all’interpretazione ideologica degli argomenti trattati.
Questa dicotomica differenziazione fra i due medium viene scandita da un ulteriore parametro di divergenza, costituito dal livello di sfida meglio definita come difficoltà, che permette di elargire una maggior immedesimazione (se quest’ultima viene sviluppata con cognizione di causa) in grado di rendere un’esperienza memorabile nel tempo. Ma ultimamente questo parametro sembra stia giungendo a compromessi per garantire una maggior accessibilità all”utenza media” del suddetto contenuto. Per poter giungere alla sua inesorabile conclusione, il fruitore non deve concepire ogni minima sfaccettatura degli avvenimenti trattati per poi formulare una propria risoluzione finale all’interno di una pellicola cinematografica, fattore che invece diviene imprescindibile per un videogiocatore che dilettandosi con un titolo investigativo potrà giungere alla sua conclusione solo se in grado di assurgere ad una soluzione mediante solo ed esclusivamente le sue capacità intellettive ed interpretative degli avvenimenti.
La realizzazione di un videogioco è uno studio che grazie al progresso tecnologico sta divenendo un processo lavorativo che può anche nella maggior parte dei casi impiegare anni nella realizzazione dell’istesso, ed uno snodo importante rappresenta l’accessibilità nella sua interezza. Difatti, può esser una conseguenza del game design estremamente articolato dedito alla formulazione di strategie che ti permettono, solo dopo un assiduo e congeniale “studio”, il superamento di una determinata sezione apparentemente “ostica” come in Dark Souls, oppure un semplice affinamento tecnico del giocatore nell’affrontare un percorso circoscritto che non ti permette in corso d’opera di variare la tua metodologia d’approccio di cui rappresenta nella fattispecie un nodo cruciale nella realizzazione dei cosiddetti “Trial and error“, come ad esempio un Crash Bandicoot. Naturalmente, mediante la differenziazione di generi che il panorama videoludico detiene, si è più propensi a categorizzare un determinato genere etichettandolo come “difficile” solo per un quantitativo di parametri e determinate nozioni da assorbire che per un neofita possono divenire un ostacolo non indifferente e, che nel caso per esempio di un Monster Hunter World, può portare se non si è armati di dedizione e pazienza ad un evento catastrofico per l’esistenza intrinseca del videogiocatore, ossia alla frustrazione.
Questo status psicologico derivante dal mancato ed inibito bisogno in cui l’essere umano si ritrova quando si è bloccati ed impediti nel soddisfacimento del desiderio di garantirsi un prosecuzio nei meandri della narrazione, nella quale il giocatore si immedesima necessita il bisogno di riportare in auge alcune eccezioni che trascendono i dogmi esposti precedentemente ma che inequivocabilmente confermano le regole. Premetto che con la definizione di “difficoltà” per come la si intende non bisogna giocoforza tirare in ballo gli “Arena Shooters“, oppure i “Rage Game“, poiché si cerca di non fossilizzarsi sull’iterazione in senso stretto come la fantomatica eventualità di incappare nel classico “Game Over“, ma di estendere questa diatriba in modo tale da portare alla luce suddette realtà come Journey ed Abzú, che non elargiscono al videogiocatore la possibilità di “fallire”, evidenziando al contempo determinati cambiamenti visivi sul personaggio giocante od addirittura riuscendo a variare eventi intorno a se nel corso dell’avventura che in linea di massima modificano seppur in piccole dosi l’esperienza di gioco in generale.
Avventure grafiche come quelle sviluppate dalla software house Telltale Games detengono oltre ad un investimento di concentrazione e d’interpretazione dell’opera anche delle suddette situazioni “attive” di “perdita o sconfitta” in cui gli effetti sul mondo sono reali ed intrinsecamente legate alle scelte del videogiocatore, così come lo stesso si può affermare di videogiochi contemplativi e fortemente simbolici come The Witness ove il fruitore è dedito al plasmare il mondo che lo circonda sfidando le proprie abilità con l’eventualità di ricevere un feedback negativo sbagliando i puzzle. In linea di massima qualsivoglia videogioco, privo di un game over in cui le tue azioni possano aver ripercussioni su quello che ci circonda o che la partita possa evincere un risultato negativo, rientra in questa categoria indipendentemente dall’immortalità del protagonista della suddetta opera anche se all’orizzonte si prospetta Dreams, titolo targato Media Molecule, che sembra voler reinterpretare questa determinata concezione pur mantenendo da come si è potuto contemplare dai vari trailer connotati di natura non propriamente ludica ma maggiormente dediti all’interattività.
In fin dei conti, la complessità di un videogame non ha un rapporto proporzionale e matematico con la qualità dell’interazione concessa, ma al contempo questa metodologia d’intrattenimento, che è stata in grado attraverso la costante fruizione nel corso della mia esistenza di istruirmi caratterialmente ed intellettualmente, risiede ancora in una fase “embrionale“, ed a maggior ragione non deve farsi influenzare, per quanto un prodotto videoludico si avvicini esteticamente a quello del grande schermo, puntando tutte le sue risorse sull’interazione senza però condannare i casi in cui quest’ultima (come in Quantum Break o in Heavy Rain) si trovi in un contesto filmico.