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No, questa volta non vi palerò di videogiochi.
Non me ne vogliate ma per una volta vi devo parlare di altro.
Vi parlerò dello scrivere di videogiochi.
E di come questo mi abbia portato a scrivere altro.
Prima di tutto vi dico cos’è questo altro, tanto per rompere gli indugi.
Si tratta di “Quel che rimane incastrato nel vento”, il mio ultimo romanzo, che, tra parentesi, non parla per nulla di videogiochi.
E vi chiederete voi, ancor più di prima: come può c’entrare lo scrivere di videogiochi con lo scrivere un romanzo che non c’entra nemmeno nulla con loro?
Beh, perché per me è iniziato tutto da lì. Dal dover esprimere su qualunque spazio di carta digitale trovassi le mie idee su quella che è sempre stata senza dubbio la mia più grande passione. Poi la voglia di mettere in circolo queste parole per confrontarle con le idee degli altri ha fatto il resto. L’incontro fortunato con quello che sarebbe diventato il mio più affezionato collega, e carissimo amico, nonché caporedattore di HavocPoint.
Da un sito all’altro insomma le parole si allenavano e sperimentavano nuove maniere per tentare di esprimere quelle idee che si formavano su qualcosa che in quel momento mi aveva toccato il cuore, nel bene o nel male. In questo, la scoperta non banale di come la scrittura facesse sentire dannatamente bene. Una sensazione di benessere da sfociare alcune volte nella vera e propria dipendenza.
Ancora oggi quando mi metto a scrivere un pezzo, tolta l’iniziale titubanza della persona ipercritica quale sono, è come se mi eclissassi dal pianeta ed iniziasse ed esistere solo quella maledetta e benedetta parete bianca da riempire. Una dipendenza insomma. E dire che mettono in guardia dai videogiochi, non dallo scrivere di loro.
Ad ogni modo poi qualcosa ha iniziato a non funzionare più. O meglio, a non funzionare completamente.
Più scrivevo pezzi, e più mi accorgevo che analizzare le storie altrui non era più sufficiente. Le parole provavano ad andarsene davvero troppo per i fatti loro, cercavano di allontanarsi totalmente dal contenuto e dalle idee che volevo esprimere. Allora ho provato a dare loro lo spazio richiesto, ove possibile, ad inizio articoli, con piccoli paragrafi anomalia, mini racconti agganciati al tema, cose così.
Ma più lo facevo e più mi accorgevo che la cosa continuava a non andare. E allora, dopo due o tre strappi di cuore interno, è così che ho accettato di ascoltarle, e prendere atto che quello era il loro modo di dirmi che avevano voglia di dare vita ad una storia che fosse tutta e interamente loro.
Quindi se ora posso stringere tra le mani quella storia su cui ho lavorato anni, incastrandola fra lavoro, recensioni e mille altri progetti, è proprio grazie a quei primi articoli, quelli in cui la semplice voglia di mettere giù due o tre idee per provare a trasmettere la mia piccola emozione a qualcun altro, hanno dato il via ad un processo di liberazione che ha portato le mie parole a cercare mondi propri in cui nascondersi, mondi da far esplodere e dare in pasto agli altri.
Di “Quel che rimane incastrato nel vento” vi dirò poco. Potete trovare un sacco di materiale online, e non mi va di annoiarvi con ciò che già c’è. Gli interessati potranno trovarlo in vendita su Amazon o ordinarlo in libreria, come di consueto.
Se però c’è una cosa che non mi stanco mai di dire, e ripeterò probabilmente fino alla morte è che questa storia è una storia fatta per dire una cosa sola, in estremo sunto: che le storie sono importanti. Le storie ci cercano. Arrivano da noi in maniera inaspettata, proprio quando abbiamo bisogno di loro. Esattamente come quando tutto non va e sentiamo che un gioco ci chiama. Accendiamo la console, e tentiamo di ficcarci al suo interno. All’interno della sua storia. E improvvisamente tutto inizia ad andare. Se abbiamo la capacità di lasciarci sopraffare da quel mondo, anche solo usando un briciolo della nostra immaginazione, della nostra voglia di viaggiare. Ed è così che le storie ci salvano. Ed è la lezione più importante che si possa imparare nella vita.
“Quel che rimane incastrato nel vento” è la scatola con cui ho tentato di spiegare questo usando solo un briciolo di magia, nulla di troppo appariscente: un vento capace di raccontare storie, al solo patto di riuscire a credere in loro. Il mio modo di dire grazie per tutte le volte in cui mi sono sentito salvato da una storia, videoludica e non.
E già che siamo qui, dovessi associarlo ad un videogioco, anche se non ha gli elementi da teen drama tipici del genere, vi direi un “Life is Strange”. Se vi va di dargli una lettura fatemi sapere cosa ne pensate, ve ne sarei grato almeno quanto sono grato a Dontonod per aver creato quel maledettissimo capolavoro.
Cavolo, avevo promesso che non vi avrei parlato di videogiochi, mannaggia.
Altra lezione importante da imparare:
non si può proprio mai smettere di parlare di videogiochi.