Stranger Things 3 – Recensione

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Cose “strane“, anzi sublimi…dopo un’intensa sessione di binge watching riuscire a sintetizzare in poche righe l’eccezionale lavoro svolto dai fratelli Matt e Ross Duffer in questa terza stagione di Stranger Things è un’impresa decisamente ardua. L’attesa è stata piuttosto lunga e snervante da parte dei numerosi appassionati che hanno difatti elevato a vero e proprio fenomeno culturale una produzione, che attraverso un’ambientazione ed una caratterizzazione maniacale della stessa, ci ha fatto riscoprire la nostalgia anni ’80 sul piccolo schermo. Nonostante ciò, dopo il grandissimo e inaspettato successo della prima stagione, l’appeal della serie è stato un continuo crescendo…eccezzion fatta per la qualità effettiva di un canovaccio narrativo che è venuto specialmente nella season precedente ad abbassarsi a livello qualitativo facendo storcere e non poco il naso agli appassionati, proprio perchè venuto inspiegabile a banalizzarsi, in un secondo ciclo stagionale che si era altresì concluso in modo troppo semplicistico. Questo perché lo stesso finale è stato impoverito, forse per una mancaza di idee, da una scrittura che fu tale da spezzare un po’ l’incantesimo creato con la prima stagione.
Dopo aver fronteggiato senza sosta e con importanti perdite la dimensione del Sottosopra i ragazzi di Hawkins sono pronti per godersi una lunga estate che si preannuncia spensierata, ma nonostante le promettenti premesse che possono rinsavire lo spirito del gruppo, una nuova minaccia ancor più pericolosa giunge in modo deciso ed inesorabile riproponendo un ritmo indiavolato che i fan attendevano spasmodicamente.

Stravolgimenti ad Hawkins

Rimembrando la grave mancanza di phatos della stagione precedente, i due fratelli si sono quindi presi il loro tempo ripartendo e ridefinendo al meglio delle loro possibilità sia la scrittura che la regia focalizzandosi su tutti gli elementi più “forti” di Stranger Things. Cosi da poterli alfine elevare all’ennesima potenza, con ovvero un’atmosfera nostalgica per un periodo e una cultura ben impressa nell’immaginario collettivo altresì edulcorata da un forte citazionismo (dai poster e non solo di “Ritorno al Futuro” e “La cosa” appesi ai muri, alle peripezie di “Indiana Jones” fino a quella, veramente geniale e senza ovviamente fare spoiler di “Terminator“).
Ciò che però sorprende di questo nuovo arco narrativo non è solo la rimescolanza di questo nuovo binomio vincente nonché paradigmatico, ma anche di un deciso ed azzeccato stravolgimento degli avvenimenti stessi che vengono esplicitati a schermo, divenuti molto più seriosi ma contemporaneamente scanzonati e resi al meglio con una prova attoriale dell’intero cast di gran spessore.
Si percepisce sin dai primi istanti di aver a che fare non più con un calderone di easter egg, cui la serie era stata in modo superficiale stereotipaticamente insignita, ma bensì da un costrutto narrativo dalle tematiche più mature che vanno a concentrarsi specialmente sui giovani protagonisti e sulla loro evoluzione fisica e caratteriale con il traumatico passaggio dall’adolescenza all’età adulta che incombe su di loro.

Vengono sviscerate le “classiche” dinamiche all’interno della quale i ragazzi si interrogano su una fase della vita ricca di interrogativi come i primi amori, che vengono messi maggiormente in primo piano, un elemento di trama deciso a scomporre le radici del gruppo con conseguenze distruttive.
Le coppie composte da Mike (Finn Wolfhard) e Undici (Millie Bobby-Brown) assieme a Lucas (Caleb McLaughlin) e Max (Sadie Sink) vanno a scontrarsi con la forte intesa che teneva unito il gruppo di ragazzi con la solidità dei rapporti che viene inevitabilmente a sgretolarsi a vista d’occhio, dando spazio ad una vulnerabilità emotiva, percepita ed esplicitata in tutta la sua insofferenza soprattutto dal povero Will (Noah Schnapp) escluso da questo trittico amoroso che inequivocabilmente gioca un ruolo fondamentale per una crescita emotiva degna di essere rappresentata su schermo. I ragazzi dovranno così mettersi alla prova non solo contro il Sottosopra e le creature che ne derivano, ma anche di fronte ad un passaggio importante della loro crescita che li porterà inevitabilmente a compiere delle scelte dolorose e che si ripercuoteranno sul gruppo.

Una duplice minaccia

Le tematiche pur riprendendo qualche nozione di stampo lovecraftiana, altresì assaporata sin dalla primissima stagione, divengono ancor più horror e ad un certo punto proprio quest’aspetto sembra quasi voler soverchiare prepotentemente la propagine sci-fi che però rimane percepibile in ogni secondo, ma cionondimeno, si denota una certa “seriosità” che viene espressa mediante una crudezza a schermo che non apparteneva alla serie (nella sua forma più estremizzante) ma che è forse stata facilitata da un processo di maturazione non solo visibile dai personaggi stessi, ma anche da un’ambientazione che ritorna a splendere sposandosi egregiamente con il lungo periodo estivo, alle porte del 4 luglio nella quale si susseguono gli avvenimenti. Il cambio netto della fascia temporale durante la quale si svolgono gli eventi contribuisce a rendere la città un personaggio vero e proprio, non relegandosi a mero sfondo senz’anima come nella stagione precedente, altresì divenendo ancor più cupa e complessa con addirittura una sottotrama che si rifà allo spionaggio e all’infliltrazione di una cellula sovietica proprio a Hawkins, a volte dai
tratti comici altre dai tratti inquietanti e che di certo fanno riflettere, che vede come protagonisti Steve Harrington (Joe Keery) ed il sempre più irriverente Dustin (Gaten Matarazzo) che in più di qualche occasione metterà da parte il proprio orgoglio per il bene del gruppo…e addirittura della nazione.

Sull'autore

Francesco Palmiero

Enciclopedizzare, narrare, contemplare e condividere insieme l'arte videoludica.